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Archive for Maggio 2008

COMINCIARONO CON GLI ZINGARI

 

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari

e fui contento, perché rubacchiavano.

 

Poi vennero a prendere gli ebrei

e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.

 

Poi vennero a prendere gli omosessuali,

e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.

 

Poi vennero a prendere i comunisti,

ed io non dissi niente, perché non ero comunista.

 

Un giorno vennero a prendere me,

e non c’era rimasto nessuno a protestare.

 

da Bertolt Brecht

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Nel dibattito sulla ricostituzione di una forza di sinistra, irrompe anche il governatore della Regione Puglia, Nichi Vendola. Pubblico di seguito le sue considerazioni (fonte: www.repubblica.it).

 

Il governatore pugliese illustra il suo manifesto in vista del congresso

“Resto comunista, ma il simbolo della falce e martello non basta”

PRC, VENDOLA MOSTRA LE CARTE

“SINISTRA LARGA MA NO A VELTRONI”

Stop a un possibile incontro con il leader Pd: “Con lui contesa aspra”

Parole dure anche a Ferrero, rivale nella corsa alla segreteria:

“Basta cercare nemici”

 

La Sinistra Arcobaleno “era una cartolina illustrata per nascondere vecchi cimeli”, ma bisogna proseguire nella politica di apertura ad altre forze della sinistra, senza rinnegare la propria identità comunista ma senza neppure “scadere in una mini-cultura caricaturale della vecchia Internazionale”. In questo processo bisogna prestare attenzione al Pd, non per incontrare Veltroni e cadere nei “gomitoli della furbizia”, ma per rimanere aperti all’eventualità che il Partito democratico possa spostare l’asse della sua politica dall’attuale “deriva neocentrista” in direzione della sinistra. Sono questi i punti principali della linea politica illustrati oggi a Roma dal presidente della Regione Puglia Nichi Vendola presentando in un incontro pubblico con i militanti la sua candidatura alla guida di Rifondazione comunista. Una corsa, quella alla segreteria del partito in palio nel congresso di luglio, che Vendola potrà vincere solo se riuscirà ad avere la meglio sul suo rivale Paolo Ferrero.

 

Lo scontro con l’ex ministro della Solidarietà sociale si annuncia aspro, ma buona parte del suo intervento il governatore pugliese lo ha dedicato proprio a chiedere che si svolga a viso aperto e in maniera leale. “Basta con l’icona del nemico, soprattutto se interno – è stato il suo monito – Non possiamo costruire un cantiere della sinistra se intorno a noi ci sono solo casematte”. Poi, rivolto ai suoi oppositori nel partito, ha aggiunto: “Non usate il Pd come una clava al nostro interno. E soprattutto non indicate me come se fossi pronto ad andare dall’altra parte. Sono comunista da decenni e se avessi voluto il salto della quaglia lo avrei già fatto. Tagliate queste miserie dal confronto interno perché così ci facciamo solo del male”.

 

Dal metodo al merito, la critica alla linea alternativa proposta da Ferrero è stata più dura che mai. “Che cosa vogliamo fare? – si è chiesto Vendola – Tornare nei fortini per restare a guardare un cielo con le stelle fisse? Non è accettabile la mini-cultura caricaturale della vecchia Internazionale comunista. Oggi per fare politica c’è bisogno di un campo vasto come un mappamondo”. “Oggi – ha detto ancora il candidato alla guida del Prc – non basta tornare davanti a una fabbrica e urlare più forte, serve un lavoro paziente e di lunga lena per riconquistare il legame con la classe a cui fai riferimento. Non basta farlo usando degli abracadabra o presentandosi con il simbolo della falce e martello. Si tratta di un lavoro più lungo e faticoso”. Per il quale, ha ammesso Vendola, “dobbiamo liberarci della nostra spocchia”.

 

Il governatore della Puglia ha poi escluso un imminente faccia a faccia con il leader del Pd. “Penso di non incontrare Veltroni – ha messo in chiaro – Questo è il tempo delle parole che si avvitano anche in gomitoli di furbizia”. “L’ambizione di Veltroni – ha aggiunto – è trasformare il sistema politico bipolare in bipartitico. Sia chiaro questo è uno dei nostri principali obiettivi polemici perché in Italia il pluralismo non può subire una simile mutilazione”. “L’interlocuzione con il Pd – ha proseguito Vendola – è fondamentale, ma solo con l’auspicio che questo possa spostare l’asse della politica di Veltroni a sinistra. Oggi il rapporto è quello di una contesa e di un conflitto molto aspri”.

 

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L’OFFENSIVA DELATRICE

 

 

ARTICOLO DI GIULIETTO CHIESA – MEGACHIP

da www.megachip.info

 

“Il Riformista” di Antonio Polito non lo legge nessuno, e infatti non è finanziato perchè sia letto da normali lettori. E’ fatto come un bottettino di informazioni “riservate”. E infatti è destinato a portaborse che circondano i politici che contano, cioè che prendono le decisioni. Sono quelli che le decisioni le preparano, le suggeriscono, le organizzano. Sono anche quelli che poi vengono inseriti nelle liste di collocamento per funzioni tipo quelle che svolgeva Pio Pompa. Infatti giornali come il “Riformista” e “Il Foglio” sono il posto migliore per preparare quel tipo di “quadri”. Scrivono per loro, gli “insegnano il mestiere”. Chi meglio di Ferrara e Polito potrebbero insegnare quel mestiere?

 

Questa premessa è indispensabile per aiutare a capire le modalità dell’attacco contro Travaglio. In accoppiata, s’intende, con Giuseppe D’Avanzo, che sparava bordate contro De Magistris e la Forleo. dimostrando bene così la scala di valori su cui misura il suo tempo di lavoro: insomma cominciamo dai veri cattivi, poi, per il resto, se avanza tempo…

 

Ma torniamo al “Riformista”. Hai fatto parlare Travaglio? Adesso ti bastoniamo (per meglio dire: perchè non lo bastonate, voi che dovete prendere prossime decisioni in RAI?). L’oggetto di tante amorevoli cure è già non più Travaglio (quello l’hanno già liquidato), bensì… Fabio Fazio.

 

Il nostro ben noto cuor di leone dava già fastidio, sebbene facesse di tutto per non dare fastidio proprio a nessuno. Ma la prudenza, neppure la meno temeraria (ed è il caso di Fabio Fazio), non è più gradita. Bisogna leccare gli stivali. Altrimenti ti cacciamo. Povero Fazio, non aveva ancora messo a posto l’orologio. Il “Riformista” invita a epurare anche lui: “E’ all’altezza professionale di condurre un’intervista su un tema così delicato?”. Come si vede viene già suggerita la motivazione della sentenza con cui gli si toglierà il contratto.

 

Delazione numero due: chi ha preparato il programma? Tra di loro c’è Michele Serra, anche lui collaboratore di Repubblica. Domanda velenosa: “Perchè in tv sempre più spesso il giornalismo è appaltato a bravi presentatori, comici e cabarettisti?” Fuori dai piedi anche Michele Serra!

 

Anche lui, negli ultimi tempi, si era fatto tanto moderato da assomigliare al tipico zerbino, ma non ha ancora leccato stivali, e forse non lo farà mai, perchè è persona per bene. Ma è persona che non ha ancora messo a posto l’orologio. Dunque toglietegli il contratto anche a lui, e in fretta, per favore.

 

Infine viene Travaglio stesso, delazione numero tre. “perchè Travaglio scrive (ancora, ndr) su Repubblica?”. Toglietegli il contratto, anche a lui. E’ il modo migliore per colpirlo, per colpirli, tagliategli i fondi, poi metteteli fuori legge. La lobby dei portaborse, informata dal “Riformista” e dal “Foglio” è invitata a cominciare la caccia alle streghe (i due “organi” lo facevano già prima, ma adesso anche loro hanno messo a posto gli orologi).

 

Il tutto mentre, sullo sfondo, Berlusconi e Veltroni – perfino più velocemente di quanto avevamo pronosticato – si stanno mettendo d’accordo su tutto. Questo vale come memento per quelli che hanno votato Veltroni per impedire che arrivasse Berlusconi, che ridere!

 

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Dopo le recenti Elezioni Politiche nazionali si è aperto a Sinistra un ampio dibattito all’interno delle forze che componevano la Sinistra Arcobaleno. Rifondazione Comunista, Verdi e PdCI hanno indetto propri congressi nazionali.

Per quanto riguarda Sinistra Democratica si è riunito sabato scorso a Roma il Comitato Nazionale che ha deliberato due importanti decisioni: la nomina del nuovo coordinatore nazionale nella persona di Claudio Fava in sostituzione di Fabio Mussi, dimissionario per motivi di salute. Inoltre è stata indetta un’Assemblea nazionale di Sinistra Democratica per il 4-5-6 luglio p.v.. La nomina di Fava è stata accolta con condivisione ed entusiasmo da parte di tutti i delegati nazionali ed in particolare dalla delegazione marchigiana. Ricordiamo infatti che Claudio Fava è molto legato alla nostra regione ed in particolare a Fermo dove, nel gennaio scorso, è stato protagonista di un’importante iniziativa presso la Sala dei Ritratti che ha visto la partecipazione di oltre trecento persone.

In questo contesto si inserisce l’iniziativa promossa dal Coordinamento Provinciale di Sinistra Democratica che ha organizzato un’Assemblea aperta ad iscritti, simpatizzanti ed esponenti di altre forze della Sinistra per sabato 17 maggio a Fermo presso la Sala Riunioni dell’Hotel Casina delle Rose. Il programma prevede l’inizio del dibattito per le 16.30 con un’analisi della situazione attuale locale e nazionale e la prospettiva della costituzione di un nuovo soggetto politico che rappresenti tutta quella Sinistra presente nel Paese ma assente in Parlamento. Parteciperanno il Coordinatore provinciale Luigi Silenzi, il Coordinatore regionale Stelvio Antonini e Gianni Zagato, responsabile nazionale dell’organizzazione di Sinistra Democratica.

Alle ore 20.15 seguirà una cena per tutti gli intervenuti presso il Ristorante dell’Hotel. Per motivi organizzativi tutti coloro che vorranno partecipare dovranno comunicare la propria presenza chiamando al numero 347.7526191.

 

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Intervista di Stefano Bocconetti a Claudio Fava (nuovo coordinatore nazionale di Sinistra Democratica) pubblicata su Liberazione il 13 maggio 2008

 

Da due giorni è il nuovo coordinatore della Sinistra democratica. Quella che una volta si chiamava sinistra diesse. Ha preso il posto di Fabio Mussi che ha lasciato. Anche per ragioni di salute. Fra i tanti telegrammi che ha ricevuto, subito dopo la nomina, c’era anche quello di Veltroni. Segretario del piddì che lui conosce da tempo e che, anzi, dieci anni fa – quand’era segretario del pds – si spese molto perché lui dirigesse l’organizzazione di quel partito in Sicilia. Il telegramma di Veltroni ha dato il via ad una serie di supposizioni, che hanno trovato molto spazio sui giornali. Insomma, diversi commentatori pensano che quelle poche parole fossero il segnale di un possibile riavvicinamento.

E’ così? Cosa nasconde quel telegramma?

Penso che sia un atto quasi dovuto, che fa parte delle norme di buona educazione politica, se così si può dire. Ma se proprio c’è un messaggio in quel telegramma, non credo che sia quello di cui hanno parlato i media…

Perché? Che cosa ci hai letto?

Forse erano la spia che anche fra le fila del piddì comincia a farsi strada la consapevolezza che con l’autosufficienza non si va da nessuna parte. Forse, la richiesta di un incontro da parte di Veltroni, comincia a rivelare che anche lì si stanno sgretolando le certezze sulla propria solitudine. C’è tutto questo e altro ancora.

Altro? Sempre in quelle poche righe?

Forse c’è anche l’ammissione che di qua, a sinistra, non c’è più solo un cartello elettorale. Certo dopo la sconfitta si sono prese strade diverse, alcuni mettono l’accento su strategie che puntano solo a ricostruire la propria identità ma ci sono anche tanti che puntano a ricostruire un’idea di sinistra. Che sappia superare la tragedia del voto. E con la quale tutti dovranno misurarsi.

Tragedia del voto. Tu come la spieghi?

Col fatto che gli elettori hanno punito il nostro deficit di verità. Parlavamo di nuovo soggetto ma in realtà abbiamo proposto un cartello elettorale, che ha mostrato il lato peggiore della sinistra. Siamo stati percepiti come una somma di apparati che divideva per quattro ogni istanza, ogni spinta dal basso. Ogni passione.

Vuoi dire che ti spieghi quel 3 per cento solo con gli errori della campagna elettorale?

Ovvio che non è così. Il problema viene da più lontano. Quando ti dicevo che c’è stato un deficit di verità mi riferivo anche ad un’analisi mancata. Alla nostra incapacità – di tutti noi – a fare i conti con un linguaggio, con categorie politiche che sono state percepite come vecchie. Antiche. Non sapevamo cosa fosse diventato questo paese e abbiamo fato finta di nulla. E invece dobbiamo proprio partire da discorsi di verità se vogliamo ricostruire la sinistra. Una sinistra che sia percepita come utile.

Utile, dici. Alla vostra ultima assemblea quest’aggettivo è stato sempre accompagnato dalla frase: «e di governo»…

Prima che formuli la domanda ti prevengo. E ti dico che trovo ridicola la contrapposizione fra chi è un teorico dell’opposizione e chi un sostenitore del governo. Contrapposizione falsa. La sinistra c’è e ci sarà se, in nome e assieme a chi vuole rappresentare, sarà in grado di trasformare questo paese. Se sarà in grado di progettare una trasformazione, di modificare lo stato delle cose presenti. E se questo è l’obiettivo, non ha senso che qualcuno dica: no, lì in quel posto dove si possono imporre le trasformazioni, non ci andrò in nessun caso. Non è mai stato così e non avrebbe molto senso riproporlo oggi.

Ma la discussione non è solo teorica. Alle spalle ci sono due anni di governo Prodi. Dammi un giudizio, in pillole, sull’esecutivo dell’Unione.

Un governo di mediazione, prudente, troppo prudente. Che ha balbettato e taciuto quando invece c’era bisogno di segnali forti. Ora la dice anche D’Alema, ora anche lui riconosce che forse si è dato più peso al pareggio di bilancio che non ai bisogni di chi lavora. Magari ci si sarebbe potuto pensare un attimo prima…

E adesso? Come si reinventa la sinistra?

Dovrà esserci un lavoro duro, di riflessione.

Anche se non tutte queste riflessioni vanno nella stessa direzione, non trovi?

E’ evidente. Penso alla scelta del Pdci, che non condivido ma rispetto, penso al sofferto congresso di Rifondazione. Come ripartire? Innanzitutto una premessa: credo che anche le vicende di questi ultimi mesi ci hanno fatto capire che l’unità della sinistra non è un valore in sè. Stare tutti insieme, e per forza – come è accaduto prima del 14 aprile – può essere dannoso, per tutti.

Stai dicendo facciamo la sinistra con chi ci sta?

Se vuoi è la traduzione brutale del mio, del nostro pensiero. Facciamo la sinistra insieme a chi la vuole, senza le riserve mentali che abbiamo visto in campagna elettorale.

Da dove cominciare?

Io vedo che c’è molta più sinistra di quanto si possa immaginare. C’è tanta sinistra al di fuori delle organizzazioni politiche, c’è tanta sinistra in piazza a Bari contro la mafia, e in tante altre piazze d’Italia. Ce n’è tanta al di fuori dei partiti. Si deve ripartire da qui, non esistono scorciatoie. Occorre ricominciare dal sociale, dalle migliaia di organizzazioni che in questi anni hanno messo le radici nei territori. Non vedo alternative: alla costituente di una nuova sinistra a cui vogliamo dedicarci o protagonista sarà questa sinistra diffusa, o non se ne esce. E da qui, occorre riprogettare le future alleanze…

Alleanze elettorali?

Parlo di alleanze di progetto. Vedi, l’autosufficienza è una brutta idea del piddì ma lo è anche se la volesse praticare la sinistra. Io penso ad una sinistra autonoma, autorevole, forte, incisiva ma che ha piena coscienza che da sola non può farcela. A meno che non pensiamo di regalare per sempre questo paese alle destre. Ci vuole una nuova sinistra, allora, in un nuovo centrosinistra. Che non assomigli in nulla, però, a quello che abbiamo conosciuto. Quello era una zattera dove sono saltati tutti sopra, salvo poi abbandonarla, facendola affondare. No, io penso ad un’alleanza vera, fra attori che si parlano in condizione di parità.

Ma sii sincero: pensi che questa alleanza possa nascere con un piddì targato Veltroni?

Davvero non ha molto senso fotografare l’attuale situazione e fissarla per sempre. Viviamo un momento molto fluido e vedo, anche nel piddì tanti segnali di chi vuole mettere in discussione la linea seguita fin qui. Quella dell’isolazionismo. Apriamo confronti, incalziamo. Da posizioni separate ma senza la pretesa di autosufficienza da parte nostra.

 

 

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INTERVISTA A GIOVANNI IMPASTATO, FRATELLO DI PEPPINO

 

di Pino Finocchiaro  (www.pinofinocchiaro.it)

 

Trent’anni dopo, molto è cambiato. Ma i giornalisti che narrano i fatti di mafia rischiano ancora. E non è giusto che a difenderli siano le scorte delle forze dell’ordine. I giornalisti coraggiosi, quelli che amano ancora condurre inchieste devono avere come unica scorta il consenso della società civile. I primi a far loro da scorta devono essere gli editori, gli altri giornalisti, i lettori“.  Giovanni Impastato. Lo raggiungo al telefono. E’ al suo banchetto del tabaccaio, in quella pizzeria di Cinisi che è il simbolo della piccola impresa che si ribella. Del negozietto aperto a tutti ma chiuso al pizzo, alle protezioni di zii e nipoti, figliocci e padrini. E’ una Sicilia dove tutti possono sentirsi fratelli anche se non parlano siciliano e neppure italiano. Mi risponde mentre prosegue a vendere quei fiammiferi e quelle sigarette che sono il segno dell’indipendenza della sua famiglia.

 

Mentre più in là lievita la pasta per la pizza e qualche operaio sporco di calce addenta già un panino con un bicchiere di birra fredda messo lì a liberare i pensieri per le quattro chiacchiere con i compagni che anche per oggi se la sono cavata senza cadere giù dall’impalcatura o finire sotto uno scavo tirato via troppo in fretta e senza puntelli. E’ la Sicilia viva, vera, che lavora e guarda a quel futuro che Cosa Nostra e i suoi servi in giacca e cravatta si ostinano a rubarle.

 

Peppino Impastato era un giornalista incazzato e senza tesserino. Non aveva tempo da perdere con le scartoffie. Aveva messo su una radio di paese e denunciava gli inciuci tra democristiani e comunisti. Tra mafiosi e imprenditori. Le violazioni urbanistiche per realizzare il vicino aeroporto di Punta Raisi che ora porta il nome di Falcone e Borsellino.

 

Se ne faccia una ragione quel politico che trova triste l’intitolazione ai giudici antimafia dell’aeroporto del quale Peppino denunciò gli intrecci mafiosi e l’olezzo di corruzione. Dall’8 all’11 a Cinisi nessuno piangerà, saranno giorni di festa e se vuoi di incazzamento. E se qualche lacrima scapperà, inevitabile, stia tranquillo che questi ragazzi di Cinisi che al mattino si cercano un lavoro e alla sera si ritrovano uomini liberi, sapranno dare parole alle lacrime.

 

Peppino Impastato fu sequestrato e ucciso nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978. Il suo corpo fu ritrovato lungo la ferrovia con una carica esplosiva accanto. Un terrorista ucciso mentre preparava un attentato, la facile soluzione del caso. L’assassinio di Moro oscurò la vicenda e persino autorevoli testate di sinistra liquidarono la vicenda accogliendo la tesi del terrorista. Anche a certi comunisti siciliani andava bene quella menzogna. Peppino l’impiccione se l’era voluta. Ma la lunga marcia silenziosa della madre Felicia Impastato non diede tregua ai suoi assassini. Le sue dichiarazioni nette ed essenziali davanti alle telecamere di quei pochi giornalisti d’inchiesta rimasti in Italia scossero il paese e il giorno dei funerali di mamma Felicia c’era l’Italia che crede che Cosa Nostra si può battere. Parte di Cinsi, no.

 

Sì, non è come trent’anni fa – mi dice Giovanni, mentre, sento, dà il resto ai clienti – la sua vicenda giudiziaria ha avuto uno sbocco, molti mafiosi sono stati condannati. La legge 109 sulla confisca dei beni comincia a dare i suoi frutti. La mafia stragista è stata attaccata e colpita al cuore. Adesso c’è Addio Pizzo. Ma la mafia come modello culturale e politico c’è ancora. Anzi, la cultura dominante, di riferimento è quella mafiosa. Non solo in Sicilia ma anche in Italia. Ovviamente, non mi riferisco all’ala militare di Cosa Nostra, della ‘ndrangheta, della Camorra, di tutte le mafie, ma alla borghesia mafiosa“.

 

L’antidoto?

Dobbiamo fare leva sulla cultura. Non dico che la repressione non sia importante. Ma il contrasto alla mafia non può essere ridotto ad un problema di ordine pubblico. Ha una dimensione culturale che va combattuta sin dalle scuole. Dal confronto fra la gente. E’ una priorità per chi ha la responsabilità di informare, formare, educare“.

 

Ecco. Partendo dall’esperienza di Peppino. Cosa dovrebbero fare i media?

Devono fare di più. Molto di più. Devono prendere coscienza del fatto che otto giornalisti sono stati uccisi perché indagavano sulla mafia e sui suoi rapporti oscuri col potere politico, economico, imprenditoriale. Devo dire, però, che i giornalisti il loro dovere lo fanno. Quel che mi impressiona è l’incapacità di indignarsi della gente. Le parole di Dell’Utri e Berlusconi, i loro attestati di eroismo nei confronti di Mangano, sono state riportate, commentate, criticate dai giornalisti ma poi tutto è scivolato via. Come se la cosa non riguardasse la vita di tutti i giorni e la gente non si indigna più“.

 

Perché?

Perché l’informazione non basta. Perché non basta più fare antimafia nei salotti televisivi. Occorre riscoprire un’antimafia dei bisogni e dei diritti. Un’antimafia che si preoccupi dei problemi quotidiani, che torni tra la gente, che comprenda le necessità. Che faccia comprendere che è proprio la mafia ad inasprire i bisogni, a gestire arbitrariamente lo stato di necessità che lei stessa ha prodotto. E’ Cosa Nostra che cancella i diritti sanciti non solo con le illegalità palesi ma con i favoritismi, i mezzucci, le connivenze. Illuminare a giorno questa radicata cultura mafiosa è l’unico antidoto all’assuefazione popolare“.

 

E che cosa salveresti dei media negli ultimi trent’anni?

Il giornalismo d’inchiesta. C’è ancora chi prova a farlo. Ma a grandi linee quel tipo di giornalismo non si scorge più. Negli ultimi trent’anni? Direi le inchieste dell’Ora. Quelle che non si fermavano ai dispacci di polizia e carabinieri. Quelle che mettevano in luce i rapporti tra mafia ed eversione neofascista. Tra mafia e cavalieri del lavoro. Adesso, invece, scorgo la volontà di non scontentare nessuno. Di essere politicamente corretti. Leggo una scrittura più blanda, più rilassata. Non vedo informazione d’assalto. Certo, comprendo anche le preoccupazioni. Perché un giornalista non dovrebbe mai rischiare la vita. E ancor prima non dovrebbe mai temere di restare solo. Dovrebbe essere sempre sostenuto dal suo giornale, dall’editore“.

 

Insomma c’è una responsabilità sociale nel fare antimafia.

Certo. Perché non è possibile educare i giovani alla lotta alla mafia senza averli prima educati alla democrazia, alla capacità di comprendere le connessioni con i poteri forti. Ecco. Questo mi preoccupa. Dell’Utri beatifica Mangano e non si indignano? Non reagiscono di fronte a cose così gravi. Poi cala il silenzio. La capacità di intromettersi in ogni piccolo affare della mafia, di raccogliere capillarmente il pizzo non è più un problema di sicurezza. Il problema è il rumeno presunto stupratore. Il rumeno finisce per fare più paura di Cosa Nostra. I lettori non ricordano più cos’è Cosa Nostra col suo immenso potere e le sue immense ricchezze. I lettori temono il rumeno non più i boss. Sono preoccupato, sì. Questo modo di spostare la lettura della verità è un pericolo per la democrazia e per la nostra vita di tutti i giorni. Sono preoccupato. Ma spero nei giovani che ricordano ancora la storia di Peppino e che vengono qui a Cinisi per interrogarsi, per scambiarsi verità, per esercitare il vizio della memoria. La lotta alla mafia cammina sulle loro gambe“.

 

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