di Marco Travaglio
Ora l’esperienza nata sette anni fa dalla straordinaria alchimia di questi due direttori, capaci di coinvolgere e coalizzare in una sorta di campo-profughi collaboratori delle più varie provenienze e culture, oggettivamente si chiude. Si finisce il lavoro e si completa il disegno avviato nel 2005, quando Furio fu defenestrato dopo mesi di mobbing praticato da ben noti ambienti Ds, insofferenti per la linea troppo autonoma, troppo aperta, diciamo pure troppo libera del giornale. Tre anni fa il disegno si compì a metà, magari nella segreta speranza che Antonio capisse l’antifona e riconsegnasse il giornale al partito che l’aveva ucciso. Padellaro, pur con la sua diversa sensibilità rispetto a Colombo, l’antifona non la capì. Continuò a scrivere e a farci scrivere in assoluta libertà. Beccandosi le reprimende più o meno sotterranee di molti politici del Pd e quelle pubbliche del Caimano. Il quale avrà tanti difetti, ma non quello di nascondere simpatie e antipatie. Lui i veri oppositori li riconosce subito e, a suo modo, li onora molto meglio di chiunque altro. Infatti, a dimostrazione del nostro successo, nei giorni delle ultime elezioni tornò a sventolare minacciosamente l’Unità additandola a nemico pubblico numero uno (chi sostiene che l’antiberlusconismo fa il gioco di Berlusconi, mentre le vere spine nel fianco del Cavaliere sono i “riformisti”, spiegherà forse un giorno perché lui abbia continuato a sventolare l’Unità, anziché Il Riformista o Europa, semprechè ne abbia notata l’esistenza). Ora, è evidente che la chiusura di questo ciclo non si deve a lui. E’ il padrone di quasi tutto, ma non ancora di tutto. Lo si deve a chi, nel centrosinistra, vedeva in questa Unità una minaccia. Salvo poi, si capisce, meravigliarsi insieme a Nanni Moretti se l’opinione pubblica latita (o forse, più propriamente, non trova sponde politiche, punti di riferimento, occasioni di manifestarsi e manifestare). Nell’Agenda Unica del Pensiero Unico del Padrone Unico, mentre la gran parte dell’opposizione dialogava o andava a rimorchio, l’Unità ha continuato a proporre pervicacemente un’altra agenda, un altro pensiero, un altro vocabolario. A dire le cose che, altrove, non si possono dire e a vedere le cose che, altrove, si preferisce non vedere. Nel paese dove, come ha detto efficacemente Gianrico Carofiglio all’Espresso, “da 15 anni Berlusconi è il padrone delle parole della politica”, perché “ha scelto lui i nomi con cui chiamare le cose e gli argomenti”, l’Unità portava ogni giorno in prima pagina altre parole, continuando ostinatamente a chiamare le cose col loro nome, non con gli pseudonimi berlusconiani e dunque “riformisti”: su questa Unità la guerra è guerra, non missione di pace; il separatismo è separatismo, non federalismo fiscale; il razzismo è razzismo, non sicurezza; il monologo è monologo, non dialogo; l’inciucio è inciucio, non riformismo; il regime è regime, non governo di destra con cui dialogare; i mafiosi sono mafiosi e i corrotti corrotti, non vittime del giustizialismo; i processi sono processi, non guerra tra giustizia e politica; le leggi incostituzionali sono leggi incostituzionali, non risposte eccessive a problemi reali; Mangano era un mafioso e chi lo beatifica non “fa una gaffe”: è come lui.